Il giuslavorista Pietro Ichino ci spiega perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma del mercato del lavoro ispirata ai principi della flexsecurity. Contrariamente alla vulgata diffusa dai suoi numerosi detrattori, la principale preoccupazione di Ichino è il recupero di una condizione di equità in un sistema caratterizzato da un vero e proprio apartheid che separa i lavoratori protetti (dipendenti a tempo indeterminato di enti pubblici e grandi imprese) da quelli non protetti (dipendenti di piccole imprese, precari, stagisti).
L’idea è quella di applicare a tutti i lavoratori in regime di sostanziale dipendenza dall’azienda alcuni principi comuni: tutti a tempo indeterminato, a tutti le protezioni essenziali, nessuno inamovibile, ma a tutti sostegno del reddito, assistenza intensiva e copertura previdenziale nel mercato del lavoro, nell’ambito del “contratto di ricollocazione” tra impresa che licenzia e lavoratore. Tale regime, da applicare solo ai nuovi rapporti di lavoro, dovrebbe essere finanziato dalle imprese, impegnate a garantire al lavoratore licenziato un trattamento complementare di disoccupazione pari al 90% dell’ultima retribuzione nel primo anno, 80% nel secondo e 70% nel terzo.
Questo impegno troverebbe parziale copertura il primo anno nell’indennità INPS, mentre nei successivi resterebbe a carico esclusivo dell’impresa, incentivandola a ricorrere a servizi efficaci di outplacement. In questo modo verrebbe meno il regime di job property che di fatto esclude i giovani da condizioni accettabili di lavoro, riparando i danni prodotti da “un sistema diabolico, che li inganna nella scuola, li esclude nel mercato del lavoro e nega loro la previdenza”.
Corollari del modello sono il superamento del dualismo fra imprese piccole e medio-grandi, con la progressiva estensione del regime di flexsecurity alle aziende con meno di 16 dipendenti (però, con finanziamento pubblico dei costi di ricollocazione ), la detassazione drastica delle fasce di reddito più basse (sotto i 13.000 euro) e del lavoro femminile, la riforma delle relazioni sindacali con un rafforzamento della contrattazione collettiva aziendale (anche a maggioranza), un piano nazionale per attrarre investimenti stranieri (una domanda di lavoro più ampia e diversificata rafforza il potere negoziale dell’offerta).
Interessante anche il capitolo della riforma sulle pubbliche amministrazioni dove, pur riconoscendo i principi ispiratori della Riforma Brunetta, si sottolinea l’opportunità di affermare con più efficacia l’autonomia delle autorità indipendenti di valutazione e di superare le rigidità degli schemi valutativi (vedi tre fasce di merito 25-50-25) con una maggiore responsabilizzazione dei dirigenti, lasciati liberi di gestire i propri piani di incentivazione ma chiamati al rigoroso rispetto di obiettivi SMART (Specific, Measurable, Achievable, Repeatable, Timely).
Stimolante anche il riferimento alla logica della “public review” (pp. 43-53), che restituisce ai cittadini un ruolo di controllori delle azioni amministrative e consente di superare il circolo chiuso dell’autoreferenzialità nella PA. Mi sembra un approccio molto costruttivo ai temi della democrazia partecipativa (più e meglio del bilancio partecipato e delle demagogiche consulte popolari). Da approfondire. In assoluto, un’ottima lettura: scorrevole e semplice nello stile, nonostante i numerosi riferimenti tecnico-giuridici, appassionata nei toni, innovativa nei contenuti.
Davvero Ichino non merita le violente accuse che si sono riversate su di lui dal fronte degli intransigenti del sindacalismo di trincea. O forse le merita per avere avuto il coraggio di guardare alla realtà di un mercato del lavoro dove la tutela di alcuni si consuma a danno dei diritti degli altri e di pensare con la propria testa in un mondo dove i luoghi comuni dell’ideologia contano più delle idee. Forse non tutte le sue proposte sono valide, ma tutte meritano di essere ascoltate e valutate con grande attenzione.
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