Arriva tutti gli anni. Pochi giorni prima di celebrare la fine dell’anno, ci ritroviamo in famiglia per la ricorrenza del Natale, formalmente dedicata alla memoria dell’Incarnazione e di fatto trasformata nel festival del consumismo. Mentre l’immagine del bambino divino si perde in un fiume di retorica e di folclore, l’attenzione si concentra sulla smaniosa ricerca dell’ultimo regalo e sul ritocco finale al menu del cenone. I soliti riti si ripetono con stanca tenacia e l’essenziale cede il passo al superfluo, sotto la luce artificiale di luminarie che per qualche giorno ci liberano dall’ansia della crisi energetica. La radio ci assorda con l’interminabile repertorio delle canzoni di Natale, i social si riempiono di auguri seriali, la televisione ci ripropone film pieni di speranza e buoni sentimenti. Ma soprattutto si mangia. Ogni occasione è buona per riunirsi intorno a un tavolo, dove l’unica regola è la sovrabbondanza: guai se alla fine non avanza qualcosa. Sarebbe un imperdonabile segno di avarizia per chi ha allestito il pasto!
È davvero uno strano mondo il nostro, che non riesce a cogliere la stridente contraddizione fra tutto questo e l’Evento che dovremmo essere chiamati a ricordare: un Dio che abbandona la sua infinita onnipotenza per mettersi nelle mani dell’uomo in una stalla sperduta nell’estrema periferia dell’impero romano. L’Eterno che si umilia nella precarietà del tempo. L’Assoluto che diventa fragile accettando il limite di un piccolo corpo umano. L’Amore che risponde alla sua estrema vocazione affidandosi alle cure dell’amato.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Come risuonano lontane queste parole affidate dall’apostolo Paolo a un’antica lettera indirizzata ai credenti della città di Filippi, in questa notte dove tutto sembra orientato all’eccesso.
Eppure, anche nella follia di questo paradosso qualcosa sopravvive all’ipocrisia di una festa senza senso. È la gioia di ritrovarsi insieme, intorno allo stesso focolare, per godere dell’unico dono che non ha prezzo e che si rinnova ogni anno: il piacere di essere comunità. In famiglia, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nelle rete amicali. Per pochi giorni il clima sembra distendersi e le ragioni di conflitto perdono intensità per lasciare spazio al calore di un abbraccio e alla leggera spensieratezza di un brindisi. Si potrebbe pensare che anche questa non sia altro che l’ennesima manifestazione di ipocrisia: una maschera indossata per l’occasione, in questo maldestro carnevale dei buoni sentimenti. Ma non è così. In realtà, davvero ogni tanto sentiamo il bisogno di tornare a essere umani, riscoprendo l’essenziale che ci unisce, sotto le cicatrici delle molte ferite che ci hanno insegnato l’arte autodistruttiva della diffidenza. Per una notte proviamo a credere davvero che sia possibile. Almeno, qualcuno ci prova.
Un richiamo mi strappa alle mie riflessioni. È pronto a tavola. Abbandono la mia comoda poltrona per unirmi alla compagnia. Tutto sommato, non possiamo permetterci di perdere un solo minuto di questa notte preziosa.
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