Sant’Anna di Palazzo, uno dei tanti vicoli dei quartieri spagnoli. Da qui si accede a uno dei pozzi che durante la guerra le squadre dell’Unione Nazionale Protezione Antiaerea hanno allargato per consentire la discesa della popolazione nei rifugi durante la seconda guerra mondiale. Questa volta a scendere lungo scale scavate nel tufo siamo noi, turisti spinti dalla curiosità e non famiglie terrorizzate dalle bombe. La rampa ci conduce 40 metri sotto il livello della strada, in una delle tante cisterne che già 2800 anni fa dissetavano i primi coloni greci di Partenope e Neapolis.
Una volta raccolto il gruppo, Gianluca ci racconta la storia di quello spazio misterioso che si apre sotto la città. Già i primi coloni greci iniziarono a scavare utilizzando il tufo per le loro costruzioni e lo spazio creato come acquedotto alimentato da una sorgente ai piedi del Vesuvio. I romani completarono l’opera estendendo la rete e risalendo fino alla fonte del Serino, a 70 chilometri di distanza, grazie ai loro spettacolari ponti acquedotto. L’ultimo intervento significativo risale al Seicento, finanziato dal facoltoso nobile Cesare Carmignano, che lo adeguò alle esigenze della popolazione di quella che ormai era diventata una delle grandi capitali europee. La rete di cunicoli e cisterne fu quindi affidata a cinque famiglie che si tramandavano di generazione il mestiere di “pozzaro” garantendo cura e manutenzione di quella città sotto la città. Risalivano in superficie attraverso i pozzi utilizzando i fori nelle pareti per arrampicarsi fino alle aperture degli appartamenti superiori dove ritiravano la loro mercede e in alcuni casi qualche “dono” supplementare da parte delle signore di casa. Nascerebbe da qui la leggenda dei “munacielli”, questi fantasmi che entrano nelle “case fortunate” lasciando segni misteriosi del loro passaggio.
Dopo l’abbandono dell’acquedotto, dovuto al travaso da un pozzo nero che nel 1884 provocò l’inquinamento di tutto l’acqua e la conseguente epidemia di colera, questi spazi sotterranei furono riscoperti durante la seconda guerra mondiale, quando furono utilizzati come rifugi antiaerei. Più di 270.000 persone furono accolti nei 400 ricoveri riaperti e adattati dall’UNPA. Quello in cui ci trovavamo noi – esteso dai Quartieri Spagnoli fino a Chiaia – arrivò ad ospitare circa 4.000 rifugiati, che hanno lasciato un ricordo del loro passaggio con graffiti anche molto raffinati che rivelano la mano felice di qualche stilista di moda di Via Chiaia. Furono giorni difficili, soprattutto sotto i bombardamenti a tappeto degli americani che costrinsero i napoletani a una permanenza prolungata e quotidiana nei rifugi per quasi tutto il primo semestre del 1943. Per fortuna gli spazi furono dotati di illuminazione, toilette e arredi adeguati che resero quel periodo più tollerabile, soprattutto per i ricchi e i prepotenti, cui furono riservati angoli dedicati, arredati con tutti i comfort.
Finita la guerra, i pozzi furono usati per lo scarico di macerie e rifiuti edilizi, fino a riempire gran parte di cisterne e cunicoli che solo il paziente lavoro di appassionato di squadre di speleologi urbani ha restituito alla fruizione di curiosi e turisti. Fra questi ci siamo anche noi, che ci muoviamo con circospezione in quegli spazi angusti dove il tempo sembra essersi preso una pausa. Ammiriamo le navate delle cisterne, scopriamo i disegni degli artisti occasionali del periodo bellico, ci infiliamo a fatica in gallerie un tempo frequentate solo da flussi di acqua, spiamo l’accesso dei pozzi che servivano agli aspiranti munacielli per avventurarsi nella vita di superficie, curiosiamo fra i pochi resti di un’antica esistenza da rifugiati.
E in quel mondo che non conosce la luce del sole incontriamo i fantasmi di un’epoca perduta, non solo i munacielli, che al ruolo di spettro sono abituati per vocazione, ma i tanti bambini, uomini, donne, vecchi che fra quelle pareti di tufo hanno speso alcuni mesi decisivi della loro esistenza. Sembra di respirare ancora le loro paure per un presente che incombeva con il rombo delle fortezze volanti americane, ma anche i loro sogni per un futuro che si annunciava con il profumo di un mondo diverso. In quel tempo di vita sospesa, in cui tutto ciò che siamo abituati a considerare normale non esisteva più, hanno provato la fame, la disperazione, la morte, percependo sulla loro pelle la violenza della Storia. Ma hanno conosciuto la Storia e hanno vissuto l’emozione di riemergere alla luce del sole, per ricostruire una nuova civiltà, possibilmente lontana da tutti quegli orrori.
Mi sembra di sentire la loro voce. Ci invita a vivere, godendo il privilegio della pace ma senza cedere alla tentazione dell’indifferenza. Ci esorta ad apprezzare il gusto delicato del nostro “pane quotidiano”, il calore delle nostre dimore che non temono la minaccia della prossima bomba, la luce del sole che riscalda la pelle. Nulla è scontato. Tutto è dono. Basta pensare al destino dei nostri fratelli ucraini, precipitati in pochi giorni nel buco nero di una guerra spietata, costretti ancora oggi a rifugiarsi sotto terra per sfuggire ai missili russi, stretti dalla morsa del freddo mentre le loro case sono ridotte in macerie.
Risalendo le rampe che ci riconducono nel brulichio rumoroso e colorato di Via Chiaia, mi concedo un respiro profondo, a pieni polmoni. Respiro la vita. E con essa la responsabilità di riempirla di senso.
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